Tim Sutton firma il suo capolavoro accusando l’America sulle armi e la violenza.
La prima inquadratura del film è quella di un occhio in dettaglio, con le pupille bagnate da una luce a intermittenza blu e rossa.
Splendidamente fotografato da Hélène Louvart e appagato dalle musiche da un altro mondo di Maica Armata, Dark Night è un film dallo stile meraviglioso che parla di brutalità, nello specifico della violenza intrinseca di un paese. È soprattutto un film sull’atto del guardare, e mica si apre su un occhio per caso. È uno spettacolo sul scrutare un film al cinema mentre fuori dilaga la violenza, e questa brutalità ormai è entrata anche in quella sala, creando un precedente come la Columbine lo fu per le scuole.
Una delle tante trovate spiazzanti di Dark Night è quella di giocare con l’identità del killer, che lo spettatore sa di certo trovarsi fra il folto gruppetto di persone solitarie che ci vengono introdotte. Nessuna malizia da parte di Sutton in questo, anche perché pare piuttosto ovvio che il killer sarà infine il ragazzo con gli occhi azzurri che si aggira da solo per le villette del paesino con il fucile.
Il finale è ancora una volta disorientante, roba che ti fa venire la pelle d’oca e che ti fa venir l’istinto di guardare l’uscita di sicurezza. Sutton nell’ultima parte di Dark Night si concede davvero un colpo d’ala geniale potentissimo, che ribadisce in modo triste l’importanza della sala cinematografica come esperienza purissima e che allo stesso tempo offre la risposta cinematograficamente più giusta alla situazione fuori controllo degli States.